LA VITA DIETRO AI CAPOLAVORI #2


Jan Vermeer - La veduta di Delft (1660)

Quando un'opera lascia il segno è proprio il caso di dirlo, quando l'arte supera il bene e il male o addirittura la morte. La sensazione la può aver ben provata  Marcel Proust. 
Aveva visto questo quadro vent'anni prima, ma se anche era malato e in fin di vita era determinato, voleva guardarlo e ammirarlo almeno un'ultima volta. L'occasione gli si presentò a Parigi dove l'opera venne esposta per una mostra...Marcel ormai completamente ammalato scriveva di notte e andava a letto di giorno, alle 9:15 del mattino, quel giorno però chiese al suo amico Jean-Louis Vandoyer (che aveva scritto una serie di articoli su Vermeer) di accompagnarlo, per quanto le vertigini fossero opprimenti.  
Tornato a casa scrisse una delle più belle pagine al libro che sperava di terminare in tempo. Un pezzo in cui il protagonista del romanzo, Bergotte, il romanziere mondato che era stato ammalato per qualche tempo,  provava le stesse sensazioni che provò lui quel giorno. 
Fu l'ultima volta che uscì da casa, morì poco dopo....

Non mi resta che lasciarvi a quella famosa pagina...
Buona lettura!

«Morì nelle se­guenti cir­co­stanze: in se­guito a una crisi, ab­ba­stanza leg­gera, di ure­mia, gli era stato pre­scritto il ri­poso. Ma poi­ché un cri­tico aveva scritto che nella Ve­duta di Delft di Ver­meer (pre­stata dal mu­seo dell’Aja per una mo­stra di pit­tura olan­dese), qua­dro ch’egli ado­rava e cre­deva di co­no­scere alla per­fe­zione, un pic­colo lembo di muro giallo (di cui non si ri­cor­dava) era di­pinto così bene da far pen­sare, se lo si guar­dava iso­la­ta­mente, a una pre­ziosa opera d’arte ci­nese, d’una bel­lezza che po­teva ba­stare a se stessa, Ber­gotte man­giò un po’di pa­tate, uscì di casa e andò alla mo­stra. Sin dai primi gra­dini che gli toccò sa­lire, fu colto da ver­ti­gini. Passò da­vanti a pa­rec­chi qua­dri ed ebbe l’impressione dell’aridità e inu­ti­lità di una pit­tura così ar­ti­fi­ciosa, che non va­leva le cor­renti d’aria e di sole di un pa­lazzo di Ve­ne­zia o di una sem­plice casa in riva al mare. Alla fine, fu da­vanti al Ver­meer, che ri­cor­dava più sma­gliante, più di­verso da tutto quanto co­no­scesse, ma nel quale, gra­zie all’articolo del cri­tico, notò per la prima volta dei pic­coli per­so­naggi in blu, e che la sab­bia era rosa, e – in­fine – la pre­ziosa ma­te­ria del mi­nu­scolo lembo di muro giallo. Le ver­ti­gini au­men­ta­vano; lui non stac­cava lo sguardo, come un bam­bino da una far­falla gialla che vor­rebbe cat­tu­rare, dal pre­zioso pic­colo lembo di muro. “È così che avrei do­vuto scri­vere, pen­sava. I miei ul­timi li­bri sono troppo sec­chi, avrei do­vuto sten­dere più strati di co­lore, ren­dere la mia frase pre­ziosa in sé, come quel pic­colo lembo di muro giallo.” Tut­ta­via, la gra­vità delle ver­ti­gini non gli sfug­giva. In una ce­le­ste bi­lan­cia gli ap­pa­riva, am­muc­chiata su uno dei due piatti, la sua pro­pria vita, men­tre l’altro con­te­neva il pic­colo lembo di muro così ben di­pinto in giallo. Sen­tiva d’aver dato, in­cau­ta­mente, la prima per il se­condo. “Non vor­rei co­mun­que di­ven­tare, si disse, il fatto sa­liente di que­sta mo­stra per i gior­nali della sera.” Men­tre si ri­pe­teva: “Pic­colo lembo di muro giallo con tet­toia, pic­colo lembo di muro giallo”, crollò su un di­vano cir­co­lare; non meno bru­sca­mente smise di pen­sare che era in gioco la sua vita e, tor­nando all’ottimismo, ri­fletté: “È una sem­plice in­di­ge­stione, per via di quelle pa­tate non ab­ba­stanza cotte; non è niente”. Un nuovo colpo l’abbatté, dal di­vano ro­tolò per terra, fa­cendo ac­cor­rere tutti i vi­si­ta­tori e i guar­diani. Era morto. Morto per sem­pre ? Chi può dirlo? Certo, le espe­rienze spi­ri­ti­che non for­ni­scono – non più dei dogmi re­li­giosi – al­cuna prova che l’anima sus­si­sta. Quello che si può dire è che tutto, nella no­stra vita, av­viene come se vi fos­simo en­trati con un far­dello di ob­bli­ghi con­tratti in una vita an­te­riore; non vi è nes­suna ra­gione, nelle no­stre con­di­zioni di vita su que­sta terra, per­ché ci sen­tiamo ob­bli­gati a fare il bene, a es­sere de­li­cati o an­che sol­tanto edu­cati, né per­ché un ar­ti­sta ateo si senta ob­bli­gato a ri­co­min­ciare venti volte qual­cosa che su­sci­terà un’ammirazione così poco im­por­tante per il suo corpo di­vo­rato dai vermi, come il lembo di muro giallo di­pinto con tanta sa­pienza e raf­fi­na­tezza da un ar­ti­sta per sem­pre ignoto, iden­ti­fi­cato ap­pena sotto il nome di Vermeer».



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